Prima di lui in diversi si erano cimentati con una letteratura in vernacolo, tra questi il librettista Giovanni Targioni Tozzetti che firmò, sotto lo pseudonimo Cangillo, numerosi sonetti e Urano Sarti (detto Pappa) che scrisse “Livorno città aperta”, romanzo interamente in vernacolo.
Ma per parlare di vero teatro in vernacolo dobbiamo aspettare quella famosa sera degli anni 20, quando Orlandi era solito fare, al termine della serata, dei fuori programma; trovandosi a corto di repertorio tirò fuori dal cilindro, e dai suoi ricordi, la figura della popolana che aveva osservato e “vissuto” fin da piccolo in Piazza di Montenero, luogo dove era nato e cresciuto.
La scenetta narrava la storia dei livornesi che, aspettando di partire per la ribotta a Montenero nel mese di ottobre, si ritrovavano all’osteria in piazza per poi salire tutti insieme.
Sera dopo sera il materiale si fece sempre più copioso e, grazie all’apprezzamento degli spettatori, Beppe Orlandi con Gigi Benigni, scrittore di novelle e di poesie in vernacolo, decisero di creare un intero spettacolo – “La ribotta di Montinero” appunto – che fu messo in scena l’8 gennaio 1929 in un teatrino della sede della Corale Giuseppe Verdi, in Via degli Uffizi de’ Grani. Quella sera nacque il Teatro Vernacolo Livornese.
Le commedie di successo aumentarono, così come i giudizi positivi, tanto che furono registrate anche su dischi; la figura della popolana, sempre in mezzo a questioni da risolvere ma sempre disposta ad aiutare gli altri, era la protagonista; il vero fulcro della scena però era il linguaggio fatto di battute fulminanti, trovate pungenti, puntando sulle cadenze, i modi di dire e facendo leva su paradossi ed allusioni senza mai scadere nella volgarità. Il ritmo era dato dai dialoghi e dai siparietti musicali allegri interpretati dai protagonisti che, rappresentando la schiettezza dello spirito livornese, con una battuta si liberavano dalla pesantezza dei problemi quotidiani.
Gli artisti che iniziarono a gravitare intorno a questo nuovo modo di fare teatro furono molti, uno su tutti Giorgio Fontanelli, saggista,
Ancora oggi la tradizione del teatro in vernacolo non si è spenta e viene portata avanti, aggiornata in materia di temi, da due compagnie: “Il carrozzone” e “La carovana” capitanate rispettivamente da Giuseppe Pancaccini e Alessio Nencioni.
Come mai questo teatro ha riscosso tanto successo ed tutt’ora in piedi? Perché il livornese – saranno il mare e il sole – è sempre stato ilare e riesce, al contrario di altri popoli, a ridere di se stesso, a sdrammatizzare i problemi e a cogliere il lato comico dell’esistenza, pur mantenendo una propria dignità.
Così quando andiamo a vedere uno spettacolo in vernacolo, scatta sempre la risata perché, seppure ci rendiamo conto di assistere ad una visione un po’ semplicistica del carattere livornese, al contempo riconosciamo, là su quel palco, quel modo di essere ben radicato in tutti noi e ciò ci fa sentire compresi e parte di un tutto, di un popolo dalle stesse radici.
Così ci ritroviamo a ridere a crepapelle dei modi di dire – e di fare – talvolta geniali che i nostri antenati, nel corso del tempo, hanno concepito, per far capire sempre al meglio la situazione e andare dritti al punto: da qui nasce quella schiettezza tutta nostrana. Se il vernacolo esiste è quindi grazie al popolo livornese, perché noi tutti siamo po’ attori e un po’ poeti, inventori di battute che ci nascono così, naturalmente, che provengono dalla nostra essenza imbevuta di ponci, di salmastro e di sugo del cacciucco.
I.B.
Articolo scritto per il blog OCCHIO LIVORNO.
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